Messy Middle: perché il Branding è correlato alle Performance

Negli ultimi anni, il marketing digitale ha subìto una trasformazione profonda, passando da una semplice logica di funnel lineare a un approccio più complesso e sfaccettato, dove il percorso dell’utente non è più prevedibile né ordinato. Questo nuovo scenario è stato definito da Google come “Messy Middle”, ovvero quella fase caotica, imprevedibile e spesso disordinata in cui le persone esplorano e valutano prima di prendere una decisione d’acquisto.

In questo contesto, si rafforza un concetto spesso sottovalutato nel performance marketing: il branding non è solo un’attività di awareness, ma un driver chiave delle prestazioni. In altre parole, le performance non si ottengono solo con l’ottimizzazione tecnica, ma anche con la forza del brand.

Cos’è il “Messy Middle”? Questo termine è stato coniato da un team di ricercatori di Google nel 2020. Attraverso uno studio condotto su oltre trecento mila scenari di acquisto e trentuno categorie merceologiche, è emerso che i consumatori non seguono più un percorso lineare (awareness, considerazione e decisione), ma si muovono in maniera circolare tra due comportamenti mentali:

  • Esplorazione: raccolta di informazioni su più alternative
  • Valutazione: confronto attivo tra queste alternative

Questo ciclo si ripete anche decine di volte prima della conversione. Durante questa fase, l’utente è esposto a una moltitudine di input cognitivi (come ad esempio prezzi, recensioni, brand, design, urgenza, sconti, storytelling) che influenzano le sue scelte in modo non razionale. È in questo spazio indefinito che il brand diventa un ancora di riferimento, aiutando le persone a orientarsi, a riconoscere, a fidarsi, e soprattutto a decidere. A ogni modo, Branding e Performance appaiono come due mondi separati, ma solo nell’apparenza.

Tradizionalmente, il marketing ha separato due grandi ambiti:

  • Brand marketing: attività di lungo termine, orientate alla costruzione di reputazione e riconoscibilità
  • Performance marketing: attività tattiche, a breve termine, focalizzate sulla conversione e sull’ottimizzazione del ROI

Per lungo tempo, queste due dimensioni sono state gestite da team distinti, con metriche diverse e spesso obiettivi non allineati. Tuttavia, nel contesto digitale di oggi, questa separazione si sta rivelando controproducente, dal momento che le performance dipendono sempre più dalla percezione del brand. Non è solo questione di “essere trovati” (SEO, SEM, ADV), ma di essere scelti e la scelta si basa spesso su ciò che le persone pensano e percepiscono rispetto a un marchio.

Per quale motivo il branding influisce sulle performance nel Messy Middle? Vediamolo insieme:

  • Riduce l’incertezza. Nel momento in cui un utente si trova nel pieno del ciclo esplorazione/valutazione, ha bisogno di criteri rapidi per scremare le alternative. In un mare di opzioni, il brand funziona come scorciatoia cognitiva: se è riconoscibile, familiare o già associato a esperienze positive, ha più probabilità di essere selezionato
  • Accorcia il ciclo d’acquisto. Un brand forte riduce il tempo che l’utente passa nel Messy Middle. Le persone tendono ad andare “sul sicuro”: se un brand è top of mind (la prima marca che viene in mente al consumatore nel momento dell’acquisto di un bene o servizio), è più facile che venga scelto senza passare da comparazioni infinite. Questo accorciamento del processo porta a un costo di acquisizione minore (CAC) e a un aumento del tasso di conversione (CVR)
  • Aumenta il valore percepito. Il branding crea un contesto simbolico e valoriale attorno al prodotto, che può giustificare un costo più alto, ridurre la sensibilità al prezzo, e generare margini migliori. Nel mondo delle performance, dove spesso si compete sul costo più basso, il brand è un asset che permette di vendere non solo di più, ma anche meglio
  • Amplifica la memorabilità. Uno degli effetti cognitivi più potenti del branding è la memoria associativa. Un utente può non convertire subito, ma se il brand ha lasciato un’impressione positiva, tornerà nei momenti di bisogno futuri. Questo rende più efficaci le strategie di remarketing e riduce la dipendenza da campagne push aggressive

Per comprendere davvero l’impatto del brand sulle performance nel contesto del Messy Middle, è utile osservare come si comportano gli utenti in scenari d’acquisto reali. Basti prendere ad esempio una situazione comune: una persona in cerca di un paio di scarpe da running. Dopo aver effettuato una ricerca su Google, si trova davanti a due annunci pubblicitari. Il primo riguarda un marchio sconosciuto, che propone un prodotto con un design accattivante, ottime recensioni, e un prezzo molto competitivo, ad esempio cinquantanove euro. Il secondo annuncio mostra un modello Nike, visivamente simile, ma con un prezzo quasi doppio.

In teoria, un consumatore razionale dovrebbe optare per l’opzione più economica e apparentemente valida. Tuttavia, nella pratica, una buona parte degli utenti sceglierà Nike. Questa scelta non è dettata unicamente da fattori razionali, ma da una dinamica psicologica ben documentata: la familiarità. Secondo il cosiddetto “mere exposure effect” (effetto di sola esposizione), più un brand è visibile e presente nella vita quotidiana di una persona (attraverso pubblicità, passaparola, social media, sponsorizzazioni) più viene percepito come affidabile. Anche se l’utente non ha mai acquistato prima delle scarpe da corsa, ha interiorizzato nel tempo l’idea che Nike sia sinonimo di qualità, performance e innovazione. Questa percezione riduce l’incertezza nel momento della scelta e accelera il processo decisionale.

Il risultato? Il marchio noto, pur avendo un prezzo più elevato, ottiene un tasso di clic maggiore, un tasso di conversione superiore e un costo per acquisizione inferiore. In altre parole, la notorietà del brand ha un impatto diretto e misurabile sulle performance digitali, rendendo più efficiente ogni euro speso in advertising. Un secondo esempio, altrettanto interessante, mostra cosa accade quando le attività di performance marketing sono ben strutturate, ma il brand è debole o inesistente. Si prenda come esempio un’azienda che vende abbigliamento ecosostenibile online. Questo e-Commerce ha implementato campagne PPC con keyword ben targettizzate, landing page ottimizzate per la conversione, test A/B costanti, funnel ben costruiti e contenuti SEO-friendly che attraggono traffico organico rilevante. Tuttavia, nonostante la qualità tecnica delle sue campagne, il tasso di conversione rimane deludente. Il traffico arriva, ma non converte.

Dopo un’analisi qualitativa, ad esempio attraverso strumenti di session recording, sondaggi onsite o feedback raccolti via email, emerge una verità fondamentale: gli utenti non si fidano. Visitano il sito, navigano alcune pagine, ma poi abbandonano. Mancano recensioni autentiche, la comunicazione è impersonale, la brand identity è generica e la presenza social è scarsa o poco curata. Nonostante il prodotto sia valido e il funnel ben ottimizzato, il brand non comunica solidità, valore, né unicità. In pratica, il problema non è il traffico, né la struttura tecnica, ma l’assenza di un’identità riconoscibile e credibile. Ciò dimostra come il brand non sia un ornamento estetico, ma un fattore abilitante della conversione. Le persone non comprano solo per il prezzo o per la funzionalità, ma anche per la sicurezza che deriva dall’affidabilità percepita di un marchio. Un brand forte riduce le esitazioni, rende l’esperienza d’acquisto più fluida e trasmette coerenza, elementi fondamentali in un contesto digitale, dove l’attenzione e la pazienza sono risorse scarse.

Un terzo scenario particolarmente rilevante emerge quando un consumatore si trova a scegliere tra due marchi ben noti, entrambi solidi, riconoscibili e con una reputazione consolidata. In queste situazioni, le differenze oggettive tra i prodotti sono spesso minime: entrambi offrono qualità elevata, design curato e prestazioni simili. Tuttavia, la decisione finale dell’utente non si basa solo su criteri tecnici o funzionali. Entra in gioco un fattore più profondo: l’allineamento valoriale.

Quando un brand riesce a costruire un’identità coerente attorno a tematiche sentite, come la sostenibilità, l’etica aziendale, l’attivismo sociale o l’impegno per la comunità, crea una connessione emotiva con il proprio pubblico. Questa connessione va oltre il prodotto: rappresenta un’affinità culturale, una scelta di appartenenza. Le persone che si riconoscono in questi valori percepiscono l’acquisto non solo come un gesto funzionale, ma come un atto coerente con la propria identità e il proprio stile di vita. In questo contesto, il brand che comunica in modo autentico e credibile il proprio posizionamento valoriale riesce a distinguersi, anche quando le alternative sembrano equivalenti. È proprio questa risonanza emotiva a orientare la scelta finale nel caos del Messy Middle, dove la razionalità da sola non basta a determinare l’esito.

Ciò che emerge chiaramente da questi esempi è che il branding non è un’attività accessoria o scollegata dal business, ma un vero e proprio moltiplicatore di performance. Oggi, dunque, la vera sfida non è essere visibili, ma essere scelti e, in questo, il brand è spesso il fattore decisivo. Ma in che modo è possibile integrare branding e performance in una strategia unificata? Per sfruttare al meglio il potenziale del Messy Middle, è necessario superare la dicotomia tra branding e performance e adottare una visione olistica e integrata. Ecco alcuni principi chiave:

  • Lavorare sulla coerenza del messaggio. Ogni punto di contatto, dalla pubblicità display all’email di remarketing, deve trasmettere la stessa personalità di brand. Un’identità coerente aiuta l’utente a ricordarti e a fidarsi
  • Misurare l’impatto del brand sulle performance. Anche se meno immediato del click o del CPA, l’impatto del branding può essere misurato. Alcuni indicatori utili pososno essere l’aumento del traffico diretto, la crescita delle ricerche branded, il miglioramento del CTR su campagne con nome brand e il tasso di conversione per gli utenti che hano già interagito con i contenuti di branding
  • Creare contenuti che uniscano valore e identità. Blog, video, social post e storytelling devono fare due cose insieme: rispondere ai bisogni dell’utente e rafforzare la percezione del brand. Il contenuto è il ponte tra branding e performance
  • Sfruttare la riprova sociale e l’advocacy. Recensioni, UGC (user-generated content), testimonianze e case study rafforzano la credibilità del brand, dando una spinta diretta alla conversione

Secondo i risultati raccolti da diversi studi neuroscientifici, le decisioni d’acquisto sono perlopiù emotive, anche se razionalizzate a posteriori. Il brand, quando ben costruito, parla all’emotività dell’utente: rassicura, ispira, promette. Il concetto di “mere exposure effect” dimostra che più una persona vede un brand, più tende a preferirlo. Questa è una delle spiegazioni più potenti del perché il branding, anche quando non porta conversioni immediate, lavora sotto traccia per aumentare le performance future.

Nel Messy Middle, il consumatore ha più potere, più informazioni e più alternative che mai. In questo scenario caotico, il brand diventa un importante punto di riferimento, dal momento che aiuta a orientarsi, a scegliere, e a fidarsi. Il branding non è più solo “soft power” per le grandi aziende, ma una leva strategica anche per le performance. Le organizzazioni che sapranno integrare storytelling, identità e contenuti con logiche data-driven e di conversione avranno un vantaggio competitivo netto.

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